Innamoramento, attaccamento e perdita

Marc Chagall, Compleanno, Olio su Tela, 81x100 cm, Museum of Modern Art, New York.

Marc Chagall, Compleanno, Olio su Tela, 81x100 cm, Museum of Modern Art, New York.



È il giorno del compleanno di Marc Chagall, Bella Rosenfeld, sta ornando la casa con mazzolini di fiori per celebrare la festa dell’amato (Marc Chagall). Lui, vedendola impegnata in quel delicato atto d’amore, smette di dipingere, le si avvicina silenziosamente e la bacia, sussurrandole: “Fuori il cielo ci chiama”.
La delicatezza di questo dipinto è evocativa del senso più profondo dell’amore: incondizionato, in cui nulla è richiesto in cambio, sognante.
Come psicoanalista, nella pratica clinica, mi trovo in continua partecipazione alle vicissitudini e sofferenze della vita amorosa dei miei pazienti. Da sempre la psicoanalisi si interroga sulle caratteristiche dell’amore, tuttavia, non è possibile affrontare in modo esaustivo un argomento così esteso e complesso.
E’ possibile interrogarsi e aprire una riflessione circa lo scarto tra l’amore sano e l’amore patologico, cosi da poter comprendere le modalità relazionali dei pazienti che soffrono, in modo più o meno consapevole, e orientarne la cura.
La capacità di innamorarsi è un pilastro fondamentale della relazione di coppia. Essa implica la capacità di collegare l’idealizzazione al desiderio erotico e la potenzialità di stabilire una relazione oggettuale(1) profonda.

Parlando di relazioni oggettuali e di relazioni d’amore, ricordiamo con le parole di Eric Fromm, che l’amore non è soltanto una relazione con una particolare persona ma bensì un'attitudine, un orientamento di carattere che determina i rapporti di una persona col mondo, non unicamente verso un "oggetto" d’amore. L’autore, nel suo celebre libro, L’Arte di amare (1957), scrive: “Se una persona ama solo un'altra persona ed è indifferente nei confronti dei suoi simili, il suo non è amore, ma un attaccamento simbiotico, o un egotismo portato all'eccesso. Eppure la maggior parte della gente crede che l'amore sia costituito dall'oggetto, non dalla facoltà d'amare. Infatti, essi credono perfino che sia prova della intensità del loro amore il fatto di non amare nessuno tranne la persona amata".
Un uomo e una donna che scoprono la loro attrazione reciproca e sono in grado di stabilire una piena relazione sessuale, accompagnata dalla intimità emotiva e da un senso di realizzazione dei propri ideali nella vicinanza con la persona amata, esprimono la capacità di mettere insieme erotismo e tenerezza e di utilizzare la sessualità al servizio dell’amore.

L'idealizzazione dell'altro è centrale nell'amore, e ne è una delle sue più importanti componenti. L'amato viene idealizzato e attraverso l'identificazione proiettiva, si sente idealizzato anche colui che ama. A volte, il meccanismo dell’idealizzazione è tale che si ama l'amore, il semplice fatto di amare, più dell'oggetto dell'amore.
Se l'originaria relazione con il primitivo oggetto d’amore (le prime figure di attaccamento) è stata dolorosa e frustrante, l'oggetto d'amore ri-trovato sarà un oggetto che reitera le antiche sofferenze dell’infanzia, un sorta di surrogato dell'amore originario perduto, nonché un elemento terapeutico di antiche ferite d'amore, di bisogni insoddisfatti che si tenta disperatamente di colmare.
Tuttavia, non si può mai pienamente ritrovare la fusionalità simbiotica della prima infanzia, a patto di incorrere nella sofferenza della perdita e della delusione. L'amore rimarrà quindi sempre in equilibrio tra il desiderio di ritrovare l'originario oggetto perduto e il bisogno di trovare un oggetto profondamente differente da quello antico.
Spesso, in psicoterapia, capita d'incontrare pazienti che hanno bisogno di aiuto perché non capiscono il motivo della loro sofferenza, non riconoscono le pene d'amore in cui sono imprigionati oppure non riescono ad elaborare la perdita dell’oggetto d’amore perduto.

Chi ha difficoltà psicologiche si trova in una condizione di conflitti, probabilmente cronici, e quello che per una persona serena è normale, per esempio vivere in coppia con amore, per una persona conflittuale è una conquista difficile, magari ottenuta e persa in continuazione. Sappiamo che odio e amore hanno la stessa origine, un po’ come aggressività e sessualità; amore e aggressività si mescolano e interagiscano nella vita di coppia ma in molti casi l’amore, quando è sano, può neutralizzare e integrare l’aggressività e addirittura trionfare su di essa.
Durante la terapia, notare che i pazienti con grave patologia del carattere iniziano a sviluppare la capacità di innamorarsi, dà indicazione che sono stati raggiunti dei progressi significativi in psicoterapia.
Nelle personalità narcisistiche, la capacità di innamorarsi, segnala l’inizio della capacità di provare colpa e preoccupazione, offrendo così la speranza della possibilità di superare la svalutazione nei confronti dell’oggetto di amore, in fondo sappiamo “ che il narcisista non è colui che ama solo sé stesso e nessun altro: egli ama male sé stesso come ama male gli altri” (Van Der Waals).
Nei pazienti Borderline, la capacità di amare può essere il primo passo verso il superamento della relazione di amore e odio verso gli oggetti primari (prime figure di accudimento), la nuova relazione d’amore può essere in grado di tollerare e risolvere i conflitti.

Essere innamorati significa, dunque, anche crescere, diventare maturi. Ci si lascia alle spalle gli oggetti reali dell’infanzia e si diventa indipendenti. In questo processo di separazione c’è anche una riconferma della buona relazione con gli oggetti interiorizzati del passato, man mano che l’individuo acquista fiducia nella sua capacità di dare e ricevere contemporaneamente amore e gratificazione sessuale, l’uno a rinforzo dell’altra, in un processo che aiuta a crescere e che contrasta la conflittualità tra sessualità e amore tipico dell’infanzia.
Quando si raggiunge questo livello evolutivo più maturo, vi è la possibilità di trasformare l’innamoramento in una stabile relazione d’amore, che implica capacità di provare tenerezza, preoccupazione e un livello di idealizzazione più sofisticato di quello provato a livelli evolutivi più primitivi, nonché un buon livello di identificazione ed empatia con l’oggetto di amore.
L'amore è possibile solo se due persone comunicano tra loro dal profondo del loro essere, vale a dire se ognuna delle due sente sé stessa dal centro del proprio essere. Solo in questa "esperienza profonda” si trova la realtà umana, la vita, la base per l'amore. L'amore, così percepito e sentito, è una sfida continua; non è un punto fermo, ma un insieme vivo, dinamico, in continuo divenire. Entrambi i partner della coppia, in questo divenire, sono ricchi di forza e vitalità, ne beneficiano individualmente e come coppia e condividono reciprocamente tale energia vitale.
La fine di una relazione, se c’è stata l’esperienza di un amore maturo non necessariamente è espressione di un fallimento.

Un aspetto complesso sul tema delle relazioni affettive è proprio il modo in cui si affrontano le separazioni.
Nessuno perde per aver dato amore, purché lo abbia offerto con sincerità e con consapevolezza. D’altra parte, chi non sa come riceverlo o non se ne prende cura è colui che soffre maggiormente.
Un’esemplificazione dell’esperienza della perdita, che con più facilità abbiamo la possibilità di rappresentarci, può essere offerta dalla condizione sperimentata dal lattante quando non vede più la mamma anche se solo temporaneamente. L’osservazione del suo comportamento non inganna su ciò che egli prova, ossia angoscia per il pericolo che quest’assenza comporta e dolore per la perdita stessa. Così, il ripetersi del gioco del nascondino, (un espediente giocoso tratto dalla quotidianità cui gli adulti ricorrono quando si relazionano con il bambino), in cui si alterna la presenza e assenza dell’oggetto amato, acquista una certa utilità, poiché facilita il riconoscimento della perdita solo momentanea, a tal proposito trovo molto significative le parole di Winnicott quando scrive “è una gioia nascondersi ma è un disastro non essere trovati”.
Ciò che accomuna il bambino all’adulto di fronte al verificarsi della perdita è la condizione di un’impossibile sopravvivenza senza l’oggetto perduto. Che un tale evento sia difficilmente accettabile è comprensibile e chiaro a tutti, meno chiara è la qualità con cui esso si presenta. Va in ogni caso segnalato che soprattutto in un primo momento i suoi sintomi acuti, il tono dell’umore depressivo, l’esaurimento dell’attività libidica e dell’interesse nei confronti del mondo esterno, la perdita di vista del senso della propria esistenza e l’impiego di energie in tutto ciò che conserva un legame con l’oggetto perduto, appaiono chiaramente con tutta la loro forza.
Le neuroscienze ci offrono una spiegazione circa la difficoltà ad accettare la fine di una relazione d’amore: il cervello umano non è preparato alla perdita!

Siamo geneticamente programmati per connetterci l’uno con l’altro e costruire legami emotivi con i quali ci sentiamo al sicuro, con cui costruire un progetto. Questo è il modo in cui siamo sopravvissuti come una specie. Attaccamento e affiliazione ci costituiscono ontologicamente, quindi una perdita, una separazione, e nei casi di maggiore fragilità anche un semplice malinteso relazionale, possono determinare un allarme nel nostro cervello.
L’impatto dell’abbandono o di una rottura viene vissuto a livello cerebrale allo stesso modo di un dolore fisico. Si può dire che gli ormoni dello stress iniziano a essere rilasciati istantaneamente dopo una rottura provocando un accumulo di cortisolo e di adrenalina, ciò che si sperimenta non è solo dolore, a causa della mancanza, ma anche una perdita di energia, “di respiro vitale”. L’angoscia emotiva diventa fisica poiché queste sostanze chimiche alterano molte nostre funzioni. Quando c’è un eccesso di cortisolo nel cervello, infatti, questo manda dei segnali per fornire più sangue nei muscoli. Appaiono contratture, tensioni, mal di testa, dolori al petto, nausea, stanchezza fisica, ecc.
Per Helen Fisher, celebre antropologa esperta in relazioni affettive, l’amore è un sistema di motivazione. Si tratterebbe di un impulso che cerca di offrire una serie di ricompense al cervello quali: l’attaccamento, l’intimità, l’impegno, il sesso, il sollievo della solitudine.
Durante una separazione il cervello sperimenta prima di tutto la perdita di queste dimensioni ed entra nel panico. Viene meno il sistema di ricompense e di sicurezze. Il cervello entra in uno stato d’astinenza, la stessa di cui soffre una persona dipendente quando le viene sottratta una certa cura o una determinata sostanza.
Il cervello umano ama l’amore, la perdita di questa dimensione lo terrorizza e per questo ha reazioni intense. Ciò nonostante, è anche abile nel ritrovare i suoi equilibri. Ha bisogno di tempo, calma e nuovi orientamenti, ma si adegua. Abbiamo le capacità sufficienti per riprenderci da ogni evento avverso che possa capitare nella nostra vita. Quando questo succede, ne usciamo rafforzati.

Il meccanismo psicologico è quello del lutto. Esso procede in modo tale che nel momento in cui l’esame di realtà ha reso chiaro che l’oggetto d’amore è stato definitivamente perduto, il soggetto tenta di difendersi alterando il rapporto con la realtà stessa. Così l’aspetto vuoto e spento dell’individuo in lutto è da attribuirsi alla sua condizione di fronte all’esame di realtà, in cui si verifica l’impiego di tutte le sue energie per slegare la sua libido da ciò che lo legava all’oggetto perduto. Soltanto al termine di questo lavoro, chiamato appunto “lavoro del lutto” quando tutta la libido è stata staccata dall’oggetto per essere investita su uno nuovo, l’io ritorna libero e disinibito.
Non sempre e non per tutti questo processo si compie in tempi rapidi e in senso positivo, e quando ciò accade, il lutto può assumere caratteristiche patologiche. Se consideriamo che ogni legame di affetto è caratterizzato da sentimenti ambivalenti di amore e odio molto intensi, appare chiaro come, la fine di un rapporto, alimenti un conflitto tra questi, in cui l’aggressività possa prendere facilmente il sopravvento per ostacolare, anche se non consapevolmente, che questo distacco dall’oggetto si verifichi a tutti gli effetti.
Il processo che paziente e terapeuta svolgono in analisi volge verso la possibilità di elaborare la perdita e il lutto.
Accompagnare una persona in lutto lungo la strada dell’integrazione della perdita vuol dire ascoltare le sue necessità, lasciando spazio al bisogno di comunicare il suo dolore e i suoi pensieri a qualcuno che sia lì pronto ad accoglierli con amore e rispetto. La persona perduta, quando vi è un elaborazione della perdita, può restare nella mente come presenza interiorizzata. La possibilità di aver goduto della sua presenza rende concreta la capacità winnicottiana di “sentirsi solo”, ovvero, la conquista di sentirsi completo, poiché la presenza dell’altro è dentro di sé, facendo a meno della sua presenza “reale”.
Nella relazione terapeutica, la narrazione, che procede con i suoi tempi e i suoi modi, consente alla persona in lutto di elaborare la perdita, facilitando quel movimento dall’esterno all’interno di chi ha perduto.


Dott.ssa Virginia Salemi
Psicoterapeuta.




1) Un oggetto può essere una persona (o parte di essa), ma anche un oggetto inanimato, costrutti mentali e rappresentazioni ideali di persone o cose. Malgrado non esista una definizione univoca di oggetto, data soprattutto la vastità dei diversi modelli psicodinamici, si può fare affidamento sull'idea di oggetto come qualsiasi cosa o persona con cui un individuo entri in relazione. Ciò che differisce fra le varie teorie è piuttosto un'indicazione sulla sua funzione, strettamente legata alle ipotesi sul concetto di libido.